Critica
Fino a oggi il motore delle narrazioni di Wenders è stato sì il vagabondaggio, ma soprattutto l’incontro. Il vagabondaggio torna anche in Paris, Texas, benché con uno scopo forse chimerico (annunciato sin dal titolo), e imperniato su una serie di ricongiungimenti. Si tratta di una novità e, dal punto di vista dei protagonisti, a partire dal loro regista, di una difficoltà maggiore. Il dialogo che, ad esempio, poteva instaurarsi per tentativi, trasporti improvvisi, tacite complicità fra un giornalista allo sbando e una bambina (Alice nelle città), fra due uomini che costeggiano una frontiera (Nel corso del tempo), fra un malato terminale e il gangster che lo travia (L’amico americano), fra un detective e gli sconosciuti con cui la sua indagine lo porta a confrontarsi (Hammett. Indagine a Chinatown); quel dialogo era necessariamente più libero, più facile da avviare che non quello di Paris, Texas, nel quale converge un intero romanzo familiare e che, come a volerci illustrare la fatica che comporta, presenta per una buona mezz’ora un protagonista silenzioso. Nonostante questo fardello di vita, di conflitti, di sofferenze anteriori e comuni, così pesante da portare, i personaggi di Paris, Texas si ritrovano, imparano a riconoscersi. A forza di premure, di ostinazione, di sfuriate affettuose Walt, il fratello, riesce a vincere il mutismo in cui si è rifugiato Travis. E Travis, a sua volta, vince l’ostilità che gli dimostra il figlio Hunter, vince l’amore che questi porta ai genitori adottivi (il tutto non senza dolore, e non senza il desolato soccorso dei detti genitori). Travis e Hunter, infine, partono insieme alla ricerca di Jane, e per ritrovarla dovranno sconfiggere l’impenetrabilità di una grande città, quella di uno specchio semiriflettente e i sedimenti di un tempo passato. Va da sé che questi riavvicinamenti successivi sono sconvolgenti: nel giro di un quarto d’ora, lo spettatore conquistato da Paris, Texas resta inchiodato su un crinale dove l’ampiezza del respiro non impedisce il groppo alla gola, l’affiorare delle lacrime come una pulsazione sincronizzata con il ritmo lento del film. [...] Sin dalle prime inquadrature (Travis nel deserto), si afferma una cattura dello spazio che non è mai stata, a mio avviso, tanto armoniosa ed espressiva, neppure in Nel corso del tempo. E a proposito di tempo, una pienezza della durata, sottolineata dalla chitarra di Ry Cooder, fa di Paris, Texas il film più calmo, più sobrio che Wenders abbia mai diretto.
Emmanuel Carrère,La distanza dell’incontro, in Tra cinema e letteratura, a cura di Carlo Chatrian e Daniela Persico, Edizioni Bietti, Milano 2015