LOST HIGHWAY - STRADE PERDUTE - Cineclub Arsenale APS

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LOST HIGHWAY - STRADE PERDUTE

di David Lynch

Durata: 134'
Luogo, Anno: USA, 1997
Cast: Bill Pullman, Patricia Arquette, Balthazar Getty


Sinossi

Telefonare a casa propria e scoprire che a rispondere è l’uomo che vi sta davanti in quel momento. Ascoltare il citofono di casa e sentire la propria voce affermare che un tizio è morto. Cambiare personalità a metà film e vedere un mondo che possiede lo stesso lessico ma un'altra sintassi. Lost Highway è tutto questo: una fuga psicogena, un viaggio scintillante e dark lungo le strade perdute di una dimensione surreale e inquietante, in un mondo governato dal mistero e dall’allucinazione, attraversato da ogni tipo di paradosso logico, da narrazioni che si avvitano dentro una spirale inspiegabile, perché “qualsiasi tipo di spiegazione si dimostrerebbe inadeguata, poiché un film è fatto per essere visto” (David Lynch).


Critica

La riflessione sul cinema messa in atto da Lynch in Strade perdute si manifesta fin dalla scelta delle due strutture narrative e stilistiche diverse che caratterizzano i due segmenti. Nella storia di Fred siamo nelle zone d’ombra del noir, con la macchina da presa che si muove sinuosa a sottolineare rumori (i telefoni che squillano nella casa vuota della coppia), evidenziare dubbi (quando si stringe sui primi piani di Fred e segue i suoi spostamenti nella casa lo lascia scomparire in una zona buia del quadro e poi torna a inquadrarlo quando riemerge dal buio), o che si alza a schiacciare i personaggi contro gli sfondi minimalisti dell’appartamento o sul vialetto d’accesso deserto. Nella storia di Pete, invece, siamo nei sobborghi luccicanti di un gangster film losangelino, tra le stazioni di servizio, i motel, le villette suburbane; la macchina da presa è meno insinuante e più diretta, non sfiora le emozioni, ma le dilata fino a esibire in un ralenti l’apparizione di Alice; la narrazione si apre paradossalmente all’episodio incidentale, semi-comico e ‘tarantiniano’ dell’aggressione armata all’autista che guida incauto sulle colline (o a quello della morte di Andy, che Lynch però maneggia con ironico tatto, trascurandone le possibilità spettacolari e ironiche). La luce e la consuetudine dei cliché dominano sul buio e le esitazioni del viaggio nell’inconscio. Se nel segmento di Fred non sappiamo esattamente cosa attenderci, in quello di Pete quasi tutto è prevedibile; quasi come se due idee di cinema (e di realtà) diverse si affrontassero e cercassero costantemente di amalgamarsi davanti ai nostri occhi. Fino a quando, naturalmente, riescono davvero a fondersi, nel segno del sogno (la capanna in fiamme), nel mondo a mezza strada del deserto, in un andirivieni frenetico dei personaggi che abbiamo incontrato. L’autostrada perduta finisce per essere quella ritrovata della coscienza degli spettatori e del cineasta.

Emanuela Martini, Cineforum, n. 375, giugno 1998